TEMPIO DELLA FORTUNA
P re ss o al Foro, poco discosto dal destro arco trionfale che il m aggior tempio del Foro medesimo
adorna, sorgono le vcstigia del m onum ento che qui si descrive: la strada per volgare denominazione
della diil/ercMWo dilungandosi verso il citato arco trionfale nc lambisce il prospetto, c quella che or
dimandiamo della F o r lm a , p er questo tempietto ivi riuvcuulo c che da uu capo all'altro della città
si estende, il manco lalo del nostro edilizio fiancheggia. Elevasi l' allro vicino a talune fabbriche le
q u ali, a quanto a noi sem bra come o r ora d irem o,al medesimo tem pietto coUcgavansi addossandosi
alle domestiche m ura d’ una ricca c asa, il cui vestibolo è sostenuto da selle pilastri, c che toglie il
nome di Casa d i Bacco da un g ran dipinto rappresentalo in una sua parete. U m uro in fine che
dietro l’edicola del tem pio si e le v a , chiudendone la parte posiica, anclic questo con una j.rivala
dimora confina. Cosi circondato, sopra uno zoccolo di travertino largo palmi 5.4 , lungo 9 2 , allo
5 palmi cd un’ oncia, ricco di m arm i, di fregi, di statue, con gentile stile ornalo per lavoro corintio,
e di quella specie che diccsi d ia s lila , volgendo la facciala al libeccio, sorgeva nei gloriosi giorni di
Augusto dedito al culto della Fortuna, pe’ pompeiani, queslo squisito, se non grandioso tem pio, tutto
spirante quella leggiadrìa elegantissim a che a .soggiogare il senso astuti quc’ sacerdoti studiavano. Ma
la volubile divinità clic sem pre lutto qua giù incostante disprczza , se stessa neppure questa volta
rispettando, m entre bene spesso nella sepolta Pompei ci serbava quasi palpitanti, direm cosi, mille
esempi delle più labili m em orie, il proprio altare, capricciosa c volubile, qui volle invece m alm enare
e distruggere. Poco lungi da questo tem pio, c quasi nell’ istessa ora delia suo discoperta uscivano
alla luce dopo diciolto secoli, rispettate cd incolumi non solam ente m olte m inute e fragili suppellettili
di quella gente , ma con meraviglia grandissim a un abbondante vassoio colmo dì frulli degli antichi
pompeiani, oliveli, freschi c olezzanti come imbanditi fossero a ricreare noi lardi posteri, loriiando
oggi gradili c saporosi al palalo quasi meglio clic nell’ istante della vesuviana catastrofe BelTardo
giuoco delia capi'icciosa F ortuna sopra se stessa. A breve tratto da queslo tempio modesto un pompeiano
preparava quei fruiti pensando ofirirli alla mensa di qualche buongustaio cam pano nel consumo di
queir anno cbe allora correva, c ignaro li consacrava invece all’im m ortalità fra gli ornam enti di un
severo musco. In cambio non lunge da quel vassoio l'altare della incostante dea, cretto a sfidare col
m arm o, e co’ bronzi le ingiurie dei secoli, c l’oblìo degli uom ini, cadendo quasi distrutto, nemm eno
la immagine sua su tale altare la mal fida deità col proprio simulacro volle serbarci in Pompei. Ed
in vero è a deplorare lo stalo diruto di queslo cdifizio che correndo l’ anno 1823 fu restituito alla
luce, c cìie spoglialo quasi inlcram cnlc de’ marm i che tulio lo rivestivano c dentro c fuori, c delle
svariate decorazioni cd altri oggetti, i quali dovcano arrinehirlo, fu dissotterrato in un terreno sconvolto
e rovistalo per antichi scavi. Riscontrandosi quivi quello che quasi sem pre fin ora si c osservato in
Pompei cioè, che gli antichi stessi solleciti nell’ andare riconoscendo sotto le m aterie vulcaniche i
pubblici cdifizi, ne sottrassero quindi da questi i più ricchi c squisiti ornam cnli. Ad ogni modo se
la sontuosità è qui scom parsa, se pochi avanzi rim angono soli a svelarci, più alla fantasìa che agli